La Grande Bellezza è l’epifania dei panorami romani per uno straniero. La Grande Bellezza è l’immortalità sorniona della Capitale. La Grande Bellezza è il malinconico legame con il primo amore. La Grande Bellezza è l’attesa. “E’ solo un trucco”. Dopo il labirintico, statunitense This must be the place, Paolo Sorrentino torna a girare a Roma e, per la nostra gioia, con il suo alter ego scenico Toni Servillo.

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Ci sono paragoni che è rischioso fare ed eredità che non si possono raccogliere, perché patrimonio di una Storia universale che appartiene a tutti. E così Sorrentino e Servillo, pur ispirandosi a quella raffinatezza poetica di un tempo che non c’è più, consacrata da Fellini e da Mastroianni, raccontano La Grande Bellezza di una Roma monumentale che osserva indifferente il bivaccare di anime assetate e affamate di un qualcosa che non conoscono, ma cercano e inseguono. “E’ solo un trucco”. E Jep Gambardella (Servillo) è un equilibrista sul filo tra vacuità e rimpianto; autore quarant’anni prima de L’apparato umano, suo unico romanzo, che aveva riscritto la letteratura italiana, ora è il mondano giornalista di una rivista, che appaga quello zoccolo duro di gente intelligente che lo legge. Vive al centro di “un coacervo di istituti religiosi” e le feste o le semplici chiacchiere sulla sua terrazza sono un viaggio che non porta da nessuna parte, come i trenini al ritmo di qualche tormentone italiano. “E’ solo un trucco”.

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La Grande Bellezza è una cronaca che fluttua tra onirico e umanità, narrata da Sorrentino attraverso volti, tantissimi, attraverso una Roma sfacciata e priva di misura, dove il confine tra sacro e profano è un velo strappato. Un film fatto di estremi, di personaggi circensi e letterari, di pessimismo, ma dove non ci sono maschere: ognuno si palesa in scena per come ha bisogno di esistere, per convincere più sé stesso che gli altri. Nessuna finzione, solo terrazze con viste mozzafiato sui cieli di Roma, dove queste figure sfatte abbarbicano la loro superficialità, i loro pettegolezzi, immortalano sé stessi in ripetute immagini di sé, per sottrarsi all’oblio, perché fermarsi a pensare equivarrebbe a spalancare le porte alla loro disperata solitudine. Perché “è solo un trucco”.

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L’eccesso, la stanchezza truccata di inconsistenti personaggi, i dialoghi affilati screziati di surreale, il cinismo penetrante di Gambardella rendono La grande Bellezza folgorante. E Sorrentino dimostra di conoscere i meccanismi di questa civiltà rococò, che non cede e non si arrende alla propria decadenza, ma vive come se il passato della splendente gioventù fosse un continuo presente.

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Su questo carrozzone, Sorrentino si lascia prendere troppo dal virtuosismo autoriale verso la fine, quando nel contrapporre i bagordi di un eterno martedì grasso ostenta troppo sulla figura di una “santa” in visita a Roma, spendendosi in alcune scelte che stonano in un una nota grottesca fino ad allora evitata. Ma “è solo un trucco” e questo procedere claudicante sul finire gli può anche essere perdonato, perché in questa giostra la sua abilità di sceneggiatore collima con la generosità di Servillo che non mette in ombra gli altri attori, ma riesce a valorizzarli; due per tutti: Carlo Verdone, che interpreta un eterno sognatore fagocitato dalla delusione, e Sabrina Ferilli, non più giovane spogliarellista, donna vissuta che riesce ancora a sorprendersi davanti alla bellezza. La Grande Bellezza è anche quella di Stefania Cella e Daniela Ciancio per le scene e i costumi, abili deus ex machina della regia, che hanno definito i contorni di un mondo, tramutando in immagine l’esperienza non solo narrativa, ma anche di vita scritta da Sorrentino. L’amaca sul terrazzo con vista Colosseo di Gambardella, il mantello accessorio fuori dal tempo della Ferilli, il bastone di Giorgio Pasotti, le ville sfarzose con piscine per scandire il tempo del proprio successo o presunto tale, il senso di indistruttibilità come lo sguardo dei miti in marmo. “È solo un trucco.” La grande bellezza non è adatta all’occhio di un microscopio snob. La grande bellezza è un trucco magico.



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2 Comments

  1. Sostanzialmente mi sono sempre trovato grossomodo d’accordo con i vostri pezzi, ma questa volta avete proprio centrato il punto, omologandovi alla solita massa informe di articoletti simil recensori che tartassano il web.
    Il film è pessimo, fatto appositamente per il pubblico italiano, con un tentativo, neanche troppo velato, di cercare di elevarlo culturalmente, facendo riempire la bocca ai tanti pseudo-intellettuali attraverso scene che, più che oniriche, sembrano messe a caso, e figure davvero troppo estremizzate. A confermare la mia tesi, oltre ai risultati ottenuti in Italia al botteghino, c’è poi la comicità, pungente come al solito quella di Servillo/Sorrentino, ma banale e volgare quella di Buccirosso/Verdone ecc. Sono un fan di Sorrentino: ho apprezzato i suoi film a partire da “Le conseguenze dell’amore”, e di recente ho anche imparato ad apprezzarlo come scrittore, ma questa volta, ha toppato di brutto.

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